EQUITA’

18 Aprile 2013

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Sarà stata al massimo l’estate 1988, quando in pieno mood anni ottanta, sfrecciavo con i miei bellissimi pattini a quattro rotelle e caddi.
Una caduta rovinosa provocata da mio fratello, che gaio se la rideva.
Riconobbi subito che, nei miei 9 anni di vita, un dolore così intenso non lo avevo mai provato prima.
Era il braccio destro.

“Vedrai ora passa”.
“Ovvia, che le bimbe grandi non piangono”.
“Vieni fuori a giocare?”

Tutti cercavano di sdrammatizzare, come spesso si fa con i bambini, ma niente sembrava placare il dolore.

“Ma a me fa male, tantissimo”, mi continuavo a lamentare.
“Via dai… stesera dormi con nonna, così ti passa tutto”.

Ci credetti, ingenuamente, e provai ad addormentarmi, evitando grandi movimenti.
Il risveglio me lo ricordo ancora oggi.
Il dolore mi trapanava il cervello, alchè i miei genitori, sebbene ancora poco convinti, decisero di portarmi al pronto soccorso.
Frattura del gomito.
Un mese di gesso.
Bollatura dio mio fratello, quale peggior congiunto dell’ anno, e una bambola nuova, come se bastasse a farsi perdonare per non avermi creduta.
Che fatica quella fine di estate con il gesso…
Il caldo mi costringeva, almeno nel primo pomeriggio, a rinchiudermi in casa giocando con noiosissime bambole.
Fu proprio in uno di quei pomeriggi che capiì che qualcosa non andava.
Una delle mie Barbie era stata manomessa, dal busto di quella bamboletta bionda proveniva infatti uno strano rumore.
Anche questa volta ci incastrava mio fratello? Non gli bastava avermi rovinato l’ estate? pure la Barbie?
Non appena avessi avuto le prove lo avrei definitivamente denunciato alla Procura della Repubblica, quale mostro lucchese delle estati torride che con vemenza infrangeva i propri deliri contro una sorella troppo fiduciosa nel prossimo.
A causa del gesso trovai qualche difficoltà a staccare quelle gambe chilometriche dal busto pettoruto della bionda, ma perseverando ci riuscii.
Dovevo capire cosa facesse quel rumore, e decisi di esplorare le interiora.
Il pertugio si dimostrava assai piccolo, e convenni che il mignolo fosse la migliore arma da utilizzare.
Entrò preciso preciso in quel buchetto, lo mossi leggermente all’ interno e con il polpastrello riuscii a sentire qualcosa.
Dovevo trovare un modo per toglierlo, cercai di estrare il dito, ma noooooo, qualcuno dei miei amici in piena tempesta ormonale anni dopo avrebbero potuto dire che il mignolo aveva fatto nocciolo, la costrizione delle vene lo avevano fatto gonfiare e non usciva più.
In un primo momento chiesi aiuto proprio al primo indiziato, mio fratello, ma non trovando alcuna valida soluzioni mi dovetti arrendere presentandomi da mia madre.
Sull’ uscio della camera, in contro luce, non dovetti sembrare un bello spettacolo, il braccio destro ingessato e il mignolo sinistro incastrato nel busto della barbie, dal quale spuntavano due enormi tette.
Dopo un primo momento di sconforto, un briefing con la nonna e una telefonata con il babbo, mia madre decise che mai e poi mai mi avrebbe portata in ospedale.

“Ma ti immagini che figura facciamo con i medici?”
“e poi quelle tette…”
“Alla meglio, dobbiamo farcela da soli”

Iniziamo con il sapone, ma niente, provammo con l’ olio, di quello buono, non ci fu verso, poi i cubetti di ghiaccio per  ridurre il gonfiore, ancora nulla.

“In ospedale mi rifiuto, mamma (cioè nonna mia) dobbiamo intervenire, occorrono: due pinze e un trincetto”

Nel mentre, io piangevo a diritto, implorando un medico vero.
Non riesco ancora a capacitarmene, ma dopo ore, la caparbietà di quelle due donne le fece riuscire nel loro intento.
Con colpi decisi ma leggeri riuscirono a squarciare i millimetri di plastica spessa di un busto di barbie ormai sventrato, salvaguardando  il mio mignolino, che un’ utilità l’ avrebbe sempre potuta  avere.

Ora tutto questo per dire che mio padre e mia madre, che in ben due occasioni della mia vita mi hanno negato delle cure mediche adeguate, nel giro di pochi mesi l’ uno dall’ altro, si sono fatti soccorrere da pazienti medici del pronto soccorso senza certo interpellarmi sull’ effettiva necessità.
Il primo, con ampio spargimento di sangue, per essersi fratturato il naso contro una vetrina troppo pulita.
La seconda per essersi bucata un occhio con uno spillo, nel tentativo di dividere ciò che il mascara aveva unito, due ciglia.

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